12–30 Aprile 2025
Vito Stassi: prendere dalla noia il senso umano da dipingere
Sia chiaro, davanti ad un’opera d’arte bisognerebbe annoiarsi. Servirebbe, cioè, considerare seriamente di assumere la postura della “noia”, una posizione lenta, priva di distrazioni e contemplatrice rispettosa di ciò che le sta davanti.
Un caso per cui sarebbe necessario porsi nello stato di noia per potervisi avvicinare alla pittura, è il lavoro di Vito Stassi. Non perché restituisca una qualsivoglia forma di divertimento evasivo e risolutivo della noia, bensì perché in questa sensazione vengono conservate le relazioni vitali e i significati fondamentali per cogliere le articolazioni della propria esistenza e dell’esistenza della pittura di Stassi.
Oggi la noia viene inquadrata dalla velocità della società dell’intrattenimento come una piaga terrificante, un dolore dal quale fuggire. Eppure è in quel luogo metafisico che risiede l’humus del vero spirito ribelle contemporaneo, quello tipico dell’eremita, dell’Uomo a contatto con se stesso e con la consapevolezza del proprio ritmo; un’espansione del pellegrino che muove i passi a rilento, in opposizione alle imposizioni di un sistema che alimenta l’Uguale e la ritmicità produttiva della distrazione.
In quest’ottica il lavoro dell’artista palermitano è intriso di noia, ovvero di tempi produttivi irregolari e di un’introspezione che si fa luogo da cui recuperare ciò che la distrazione ha sottratto al tempo dell’Uomo; una noia che assume il ruolo di strumento imprescindibile per le modalità di sviluppo della pittura di Stassi. Dopo aver a lungo dimostrato una raffinata tecnica di reinterpretazione pittorica dei materiali fotografici, in cui i volti diventavano un prontuario mimico di emozioni da indagare, l’artista palermitano affronta un blocco produttivo dal quale uscirà mettendo finalmente in discussione la pittura tramite quel sentimento prodotto dalla mancanza di attività. Il volto, luogo infinito di espressioni e rivelatore degli stati d’animo, ritorna e rimane una costante paradigmatica nel discorso di Stassi, ma diventando il fondo preparatorio di una pittura tutta da riscrivere, da ribaltare nel senso stesso della pratica, indagando quei segni grafici frutto dell’annoiarsi.
Lo “scarabocchio”, come lo definirebbe Robert Motherwell, ovvero quel disegno e quella scrittura automatica con cui entrare in confidenza con la propria parte più intima, per Stassi diventa elemento portante nell’economia del dipinto, inserendosi tanto per esigenze di equilibrio, quanto di rottura. I volti asessuati che costituiscono l’album dei ritratti, si caricano di mistero e si trasformano in paesaggi ambigui, strutturati da piani evanescenti con cui Stassi ribalta le possibili interpretazioni psicologiche.
Pervasi dal senso di libertà formale ed esecutiva, i dipinti di Stassi mantengono la freschezza dello schizzo, di quell’abbozzo realizzato istintivamente a mo’ di “ammazza tempo”, ma che riporta sulla tela uno stato ricercato di sospensione, con cui sfuggire al piano opprimente del reale e che trova nella noia l’energia produttiva di opere stratificate di senso umano.
Mario Bronzino
Forse l’ho letto, o devo averlo sognato, ma ho sempre creduto che Antonello da Messina abbia dovuto interrompere una delle sue sedute di posa per L’annunciata perché la sua modella, con ogni probabilità Santa Eustochia, sarebbe stata presa da un’inspiegabile voglia di ridere. E che, una volta ripiombata nel silenzio impenetrabile da Madonna, di questa risata sia rimasto un sorriso appena accennato che le conferirebbe quell’aria angelica, incorruttibile e dimessa. Una spiegazione frivola e improbabile, eppure capace di dare la misura di una possibile casualità, misteriosa quanto terribile, che attraversa la storia di quel dipinto, e forse della pittura in generale.
Un’energia simile l’ho ritrovata nei dipinti di Vito Stassi.
I volti sfocati e impenetrabili dei suoi ritratti rivolgono sorrisi inspiegabili e beffardi, sguardi stolidi o sconcertati. Non hanno nome, né identità, sono il risultato di un esercizio pittorico di sovrascrittura. Alla base c’è sempre una figura semplice, tracciata rapidamente, poi trasfigurata da una sovraimpressione di forme. La loro immagine prende così corpo una velatura dopo l’altra, in un gioco di addizioni e sottrazioni, cancellature e segni postumi. Il volto, che è un soggetto ricorrente nella sua produzione più recente, così come il paesaggio, altro non è quindi che un pretesto per lasciare che la pittura conduca l’immagine in territori inattesi, in un’altra dimensione. Lo stile è graffiato e veloce, ottenuto attraverso una pittura a olio rapida e immediata. Le figure impalpabili, sul punto di dissolversi, di diventare il proprio spettro. Sono apparizioni risorte da una storia dell’arte interiorizzata e rimescolata sulla tela, dettagli iconografici tratti da un archivio mentale, ormai irriconoscibili. E se le inquadrature strette escludono ogni possibile contestualizzazione, il piccolo formato risponde proprio a un’esigenza di immediatezza e improvvisazione.
Per tornare al punto di partenza, non credo che dovremmo pensare alla pittura come a un tentativo di catturare un’immagine, ma piuttosto come a un processo che ne sappia cogliere la leggerezza, la natura fantasmatica e traslucida, permettendole di viaggiare su altre frequenze. Per questo è impalpabile.
Mariacarla Molè
12–30 Aprile 2025
Vito Stassi: prendere dalla noia il senso umano da dipingere
Sia chiaro, davanti ad un’opera d’arte bisognerebbe annoiarsi. Servirebbe, cioè, considerare seriamente di assumere la postura della “noia”, una posizione lenta, priva di distrazioni e contemplatrice rispettosa di ciò che le sta davanti.
Un caso per cui sarebbe necessario porsi nello stato di noia per potervisi avvicinare alla pittura, è il lavoro di Vito Stassi. Non perché restituisca una qualsivoglia forma di divertimento evasivo e risolutivo della noia, bensì perché in questa sensazione vengono conservate le relazioni vitali e i significati fondamentali per cogliere le articolazioni della propria esistenza e dell’esistenza della pittura di Stassi.
Oggi la noia viene inquadrata dalla velocità della società dell’intrattenimento come una piaga terrificante, un dolore dal quale fuggire. Eppure è in quel luogo metafisico che risiede l’humus del vero spirito ribelle contemporaneo, quello tipico dell’eremita, dell’Uomo a contatto con se stesso e con la consapevolezza del proprio ritmo; un’espansione del pellegrino che muove i passi a rilento, in opposizione alle imposizioni di un sistema che alimenta l’Uguale e la ritmicità produttiva della distrazione.
In quest’ottica il lavoro dell’artista palermitano è intriso di noia, ovvero di tempi produttivi irregolari e di un’introspezione che si fa luogo da cui recuperare ciò che la distrazione ha sottratto al tempo dell’Uomo; una noia che assume il ruolo di strumento imprescindibile per le modalità di sviluppo della pittura di Stassi. Dopo aver a lungo dimostrato una raffinata tecnica di reinterpretazione pittorica dei materiali fotografici, in cui i volti diventavano un prontuario mimico di emozioni da indagare, l’artista palermitano affronta un blocco produttivo dal quale uscirà mettendo finalmente in discussione la pittura tramite quel sentimento prodotto dalla mancanza di attività. Il volto, luogo infinito di espressioni e rivelatore degli stati d’animo, ritorna e rimane una costante paradigmatica nel discorso di Stassi, ma diventando il fondo preparatorio di una pittura tutta da riscrivere, da ribaltare nel senso stesso della pratica, indagando quei segni grafici frutto dell’annoiarsi.
Lo “scarabocchio”, come lo definirebbe Robert Motherwell, ovvero quel disegno e quella scrittura automatica con cui entrare in confidenza con la propria parte più intima, per Stassi diventa elemento portante nell’economia del dipinto, inserendosi tanto per esigenze di equilibrio, quanto di rottura. I volti asessuati che costituiscono l’album dei ritratti, si caricano di mistero e si trasformano in paesaggi ambigui, strutturati da piani evanescenti con cui Stassi ribalta le possibili interpretazioni psicologiche.
Pervasi dal senso di libertà formale ed esecutiva, i dipinti di Stassi mantengono la freschezza dello schizzo, di quell’abbozzo realizzato istintivamente a mo’ di “ammazza tempo”, ma che riporta sulla tela uno stato ricercato di sospensione, con cui sfuggire al piano opprimente del reale e che trova nella noia l’energia produttiva di opere stratificate di senso umano.
Mario Bronzino
Forse l’ho letto, o devo averlo sognato, ma ho sempre creduto che Antonello da Messina abbia dovuto interrompere una delle sue sedute di posa per L’annunciata perché la sua modella, con ogni probabilità Santa Eustochia, sarebbe stata presa da un’inspiegabile voglia di ridere. E che, una volta ripiombata nel silenzio impenetrabile da Madonna, di questa risata sia rimasto un sorriso appena accennato che le conferirebbe quell’aria angelica, incorruttibile e dimessa. Una spiegazione frivola e improbabile, eppure capace di dare la misura di una possibile casualità, misteriosa quanto terribile, che attraversa la storia di quel dipinto, e forse della pittura in generale.
Un’energia simile l’ho ritrovata nei dipinti di Vito Stassi.
I volti sfocati e impenetrabili dei suoi ritratti rivolgono sorrisi inspiegabili e beffardi, sguardi stolidi o sconcertati. Non hanno nome, né identità, sono il risultato di un esercizio pittorico di sovrascrittura. Alla base c’è sempre una figura semplice, tracciata rapidamente, poi trasfigurata da una sovraimpressione di forme. La loro immagine prende così corpo una velatura dopo l’altra, in un gioco di addizioni e sottrazioni, cancellature e segni postumi. Il volto, che è un soggetto ricorrente nella sua produzione più recente, così come il paesaggio, altro non è quindi che un pretesto per lasciare che la pittura conduca l’immagine in territori inattesi, in un’altra dimensione. Lo stile è graffiato e veloce, ottenuto attraverso una pittura a olio rapida e immediata. Le figure impalpabili, sul punto di dissolversi, di diventare il proprio spettro. Sono apparizioni risorte da una storia dell’arte interiorizzata e rimescolata sulla tela, dettagli iconografici tratti da un archivio mentale, ormai irriconoscibili. E se le inquadrature strette escludono ogni possibile contestualizzazione, il piccolo formato risponde proprio a un’esigenza di immediatezza e improvvisazione.
Per tornare al punto di partenza, non credo che dovremmo pensare alla pittura come a un tentativo di catturare un’immagine, ma piuttosto come a un processo che ne sappia cogliere la leggerezza, la natura fantasmatica e traslucida, permettendole di viaggiare su altre frequenze. Per questo è impalpabile.
Mariacarla Molè
Galleria Susanna Occhipinti
Via Napoleone Colajanni 9–11, Ragusa
Galleria Susanna Occhipinti
Via Napoleone Colajanni 9–11, Ragusa